DEI CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA
Prof.ssa Lucia Bertolini
articolo di Malu, Mabi e Marga
A scuola si tende a privilegiare la comprensione e l’interpretazione del testo, rimandando all’università la sua tradizione, le sue linee di trasmissione. Ma esse sono ugualmente importanti.
Come classici della letteratura italiana s’intendono generalmente i testi delle tre corone:
– la Divina Commedia di Dante,
– il Decameron di Boccaccio,
– il Canzoniere di Petrarca..
Importante è ricordare la differenza tra macrotesto e microtesto: se si prende ad esempio come macrotesto la Divina Commedia i suoi microtesti sono i vari canti; il Decameron è formato da 100 novelle architettate in dieci giorni con una cornice e il Canzoniere (Rerum Vulgarium Fragmenta) presenta 366 microtesti.
LA DIVINA COMMEDIA
La Divina Commedia fu un evento: Dante non è ancora morto che, nel 1317, alcuni frammenti dell’Inferno vengono trascritti nei Memoriali Bolognesi, una raccolta di atti notarili tra i quali a volte vi erano fogli o solo spazi bianchi sui quali si possono trovare scritte piccole parti di poesie (ad esempio singole terzine della D. C., o il sonetto della Garisenda), riportate a memoria. Questo dimostra che l’opera di Dante venne da subito guardata come un monumento, degno di essere tramandato e studiato. Ma a differenza di quanto riguarda le opere di Boccaccio e di Petrarca non abbiamo un manoscritto autografo della Divina Commedia.
Fare un’edizione critica significa operare una collazione tra i vari manoscritti che ci sono arrivati e individuare gli eventuali, e molto frequenti, errori di trasmissione testuale. Un’edizione critica della D. C sarebbe stato un lavoro troppo grande per un solo uomo.
La prima edizione critica della Divina Commedia si deve alla cura di G. Petrocchi, La commedia secondo l’antica vulgata.
Il titolo di questa edizione critica è semplicemente Commedia, e non Divina, perché questo è un aggettivo dato da Boccaccio all’opera di Dante e non presente nella tradizione precedente: Boccaccio fu un grande estimatore di Dante e anche suo editore, chiaramente nel senso medievale di allestitore di manoscritti. Petrocchi analizza solo i 27 (su un totale di 800) manoscritti precedenti a Boccaccio, interessandosi quindi solo a quelli compresi tra 1321 e il 1355, (ed ecco perché “secondo l’antica vulgata”) perché ipotizza che Boccaccio abbia agito sulla D. C. come aveva operato sulla Vita Nova, ovvero cambiando, aggiungendo, rimescolando le carte.
Petrocchi, studiando i manoscritti, individua alcuni errori e, ipotizzando che due manoscritti con gli stessi errori derivino dalla stessa fonte (antigrafo), arriva a costruire uno stemma codicum, ovvero uno schema di trasmissione degli scritti più antichi.
Recentemente però è stato ipotizzato che i manoscritti precedenti a Boccaccio siano 80, e non 27, e questo mette in discussione la ricostruzione di Petrocchi.
Il Landiano (LA), conservato nella biblioteca di Passerini Landi di Piacenza, è il manoscritto più antico della Divina Commedia sottoscritto dal copista con nome e cognome. E’ scritto in una splendida scrittura chiamata cancelleresca o bastarda, normalmente utilizzata dai funzionari nei documenti (questo significa che Antonio da Fermo, il copista, era un copista per passione). Erano stati destinati anche alcuni spazi, poi rimasti bianchi, per le illustrazioni, ed è presente un disegno schematico dell’inferno. Dal punto di vista filologico si tratta comunque di un ottimo manoscritto.
Osservando lo stemma codicum di Petrocchi si può notare un manoscritto ancora più antico del LA, il MARTini; ma non si tratta di un vero manoscritto, ma di una cinquecentina che testimonia una collazione tra più manoscritti. Fonte perduta del MART fu il manoscritto di Forese, che trascrisse la D. C. nel 1330 basandosi sul principio che l’opera non andasse solo trascritta, ma anche mantenuta intatta, lasciata come l’aveva scritta Dante (e per fare ciò utilizzò un metodo che di filologico non ha nulla: scelse le versioni “più belle” (concinna) ed eliminò quelle secondo lui “false”, che non sarebbero mai potute scaturire dalla penna di Dante). A soli 8 anni dalla morte dell’autore della D. C. i copisti erano quindi già incredibilmente attivi.
Nessun manoscritto non presenta almeno delle note testuali e nella maggior parte si possono trovare dei commenti al testo (come quello di Jacopo Altieri nel LA o quello di Boccaccio), dei riepiloghi in terzine (capitoli) su modello di quelle dantesche. Il manoscritto tipo presentava, come il Riccardiano 1035, trascritto a Bologna, il testo di Dante al centro con il capolettera e intorno il commento di Jacopo della Lana.
A volte la contaminazione tra i codici è evidente: alcuni copisti non si limitano a copiare un solo manoscritto (nello stemma codicum linea continua), ma ricorrono, sistematicamente o meno, ad altri (linea tratteggiata). Ma il LA deriva da due linee continue, unendo in sé entrambe le due linee di trasmissione principali (α e β), poiché dopo che il testo fu copiato qualcun altro intervenne a correggerlo attingendo a un’altra linea di trasmissione (in questo caso non si parla di contaminazione). Questo fenomeno non è proprio solo del Codice Landi, ma anche nel manoscritto Ash. (cfr. infra) della Biblioteca Laurenziana.
Appare chiaro che fin dall’inizio si cercò di operare una collazione tra i manoscritti per ottenere un testo il più vicino possibile all’originale dantesco; cosa che poi, con altre competenze, si cerca di fare anche ora.
Il secondo metodo dell’esecuzione dell’edizione critica è stato ideato da Michele Barbi, filologo dantesco, alla fine dell’800: è il metodo per loci critici secondo il quale non si collaziona tutto il testo degli 800 manoscritti, ma si analizzano solo i luoghi più difficili (356) dove il copista poteva sbagliare.
Nel 2001 è uscita un’edizione critica il cui lavoro è analogo a quello dell’Ottocento: Dantis Alagherii Comedia, edizione critica a cura di Federico Sanguineti.
Lo stemma codicum di Sanguineti è molto semplificato, e rispetto a quello di Petrocchi c’è una differenza fondamentale: la linea di trasmissione β è rappresentata da un solo manoscritto, URB, custodito alla Biblioteca Apostolica Vaticana, perché MAD e RB si trovano in α.
Secondo l’edizione critica di Sanguineti quasi non c’è codice senza commenti e senza correzioni.
IL DECAMERON
Nella tradizione di un testo è individuabile una parabola ascendente, in cui l’autore modifica il testo fino a giungere alla forma finale, e una parabola discendente, in cui il testo viene logorato, cioè cambiato, dai copisti e dai lettori. La situazione delle opere di Boccaccio e di Petrarca è completamente diversa da quella della D. C., di cui da un lato non abbiamo nessuna notizia sulla parabola ascensionale e dall’altro un grande proliferare di manoscritti per quanto riguarda quella discendente.
Di Boccaccio abbiamo un manoscritto autografo, conservato a Berlino, che venne scritto nel 1370, solo 5 anni prima della morte dell’autore; ma da altre fonti sappiamo che il Decameron, iniziato verso il 1355, era già stato scritto nel 1360.
Giovanni Boccaccio, Decameron, edizione critica secondo l’autografo hamiltoniano, a cura di Vittore Branca.
I manoscritti successivi all’Hamilton, quelli che riguardano la parabola discendente, anche se numerosi (60), sono per lo più parziali, forse perché i lettori seguono i consigli dell’autore (ad esempio Boccaccio definisce le novelle della quarta giornata un po’ oscene) e quindi scelgono solo ciò che gli interessa. Ma questo non succede per almeno tre codici, che riportano solo le prime tre giornate: questo è particolare se si pensa che all’inizio della quarta giornata Boccaccio introduce una parte in cui dice di avere già avuto delle reazioni dai suoi lettori.
L’Hamilton rappresenta l’ultima versione voluta da Boccaccio, ma è notevolmente cambiato rispetto a quelle precedenti, come dimostra il ritrovamento di un manoscritto di dieci anni prima con varianti sicuramente d’autore (Piacenza, Passerini Landi, manoscritto Vitali 26).
IL CANZONIERE
Certo conosciamo abbastanza sulla fase ascendente di Boccaccio, ma la situazione per Petrarca è ancora più fortunata: l’autore scrive alcune parti del Canzoniere di sua mano e abbiamo anche alcuni fogli su cui aveva scritto per la prima volta i suoi testi e poi li aveva elaborati (e infatti la scrittura è anche più corsiva e affrettata, decisamente meno libraria).
Questo surplus d’informazioni sulla fase ascensionale del testo, si accompagna però all’incertezza su cosa i lettori abbiano poi letto realmente: Petrarca si tiene per sé la versione finale del Canzoniere (Vaticano Latino 3195) fino alla propria morte, per poterla continuamente rivedere e cambiare. Questo manoscritto non ha avuto una tradizione: dopo la morte di Petrarca è poi passato ai suoi discendenti rimanendo per tutto il ’400 alla famiglia padovana di Santasofia e non venendo mai pubblicato (con un’unica eccezione: un copista padovano, amico dei Santasofia, copia il Canzoniere in un incunabolo).
Per il resto nella tradizione manoscritta l’opera di Petrarca non compare mai sotto questa forma: l’autore pubblica solo alcune parti, ciò che aveva scritto a una certa data (per esempio quando, morta l’amata Laura nel 1348, si era accorto di avere 40 anni e di essere arrivato a metà della sua vita). I copisti successivi cercano di mettere insieme i vari frammenti, che però non si trovano mai nell’ordine che ci aspetteremmo: ad esempio un copista riporta solo parte dei sonetti perché privilegia al discorso filologico l’estetica del manoscritto, e ciò gli permetteva una costruzione della pagina più coerente e lineare. La maggior parte dei manoscritti della fase discendente di Petrarca sono quattrocenteschi.
BIBLIOTECA PASSERINI-LANDI IL MANOSCRITTO VITALI
Si tratta di alcuni fogli del Decameron (ritrovati negli anni ’70) che erano stati inseriti nella rilegatura di un incunabolo religioso per fare volume: forse Boccaccio viene punito per aver scritto “cose oscene”, ma in questo modo almeno il manoscritto si è conservato. Il Vitali 26 è vergato in una scrittura mercantesca usata quotidianamente dal copista in questione, con piccole decorazioni, ordinata in colonne; mantiene inoltre delle varianti d’autore.
Si può notare la nobilitazione del raddoppiamento fono-sintattico: i toscani dopo un monosillabo, se la parola inizia per consonante, la raddoppiano (per esempio “a parole” diventa “apparole”); ma nei manoscritti boccacciani, e anche in questo, i raddoppiamenti vengono normalmente nobilitati (“apparole” diventa “adparole”, poiché la a deriva dall’ad latino). Questa non è di certo una decisione del copista, ma deriva dai manoscritti autografi.
Sono presenti alcune varianti tra l’Hamilton e questo manoscritto, ad esempio:
– “a quei tempi leggermente” compare nel Vitali come “leggermente a quei tempi”,
– “andava con fatica” si ritrova nel Vitali come “andava con lento passo”.
Appare improbabile che queste variazioni siano state introdotte dal copista, tanto più che “fatica” è anche più banale (lectio facilior), ma più verosimilmente esse sono riconducibili a tradizioni precedenti l’Hamilton.
Si può facilmente vedere come l’antichità di questo manoscritto vada di pari passo con il suo valore testuale.
IL LANDIANO
Scritto da Antonio da Fermo in cancelleresca, il Landiano è un codice membranaceo.
Si possono notare il tentativo di rappresentare la complicata geografia infernale mediante cerchi concentrici, la nota di possesso cancellata da reagenti chimici che poi si è cercato di recuperare utilizzando altri agenti chimici che l’hanno resa ancora più illeggibile, e l’incipit della commedia in cui le correzioni operate sul testo sono numerose e ben visibili.
Questo manoscritto, essendo preziosissimo, non può essere consultato troppo frequentemente ed è però fruibile grazie ad una riproduzione digitale.
LA FORMA MALATESTA
La forma Malatesta del Canzoniere è quella più diffusa e a Piacenza ne abbiamo due esempi.
1)
Si tratta di un manoscritto, risalente circa al 1470-1480, con formato ridotto (formato più usuale nel ’400) e pergamenaceo, quindi destinato a un’utenza di un certo pregio. E’ scritto in antiqua, cioè utilizzando una grafia che nel ’400 si credette risalente ai romani, ma che in realtà è databile all’VIII secolo d.C. Maiuscole e minuscole appaiono sapientemente mescolate.
Nella parte iniziale si trova un testo in terzine, mentre, a partire dal 37 recto, iniziano i Rerum vulgarium fragmenta, che segnano il passaggio a una nuova disposizione grafica: ogni pagina contiene due sonetti ed è quindi divisa in due blocchi. Il copista sceglie i sonetti per poter mantenere, con molta eleganza, sempre la stessa impaginazione.
Il copista sicuramente subisce gli influssi della rinascita degli studi riguardanti la scrittura greca.
Si ha traccia della forma Malatesta solo nei sonetti iniziali.
2)
Questo codice, scritto intorno alla metà del ’400, presenta una cura particolare nell’impaginazione: ogni facciata è occupata, come nel manoscritto precedente, da due sonetti, ma qui l’impaginazione si adatta alla conformazione del testo, è disposta a cambiare se ciò si rivela necessario.
All’inizio è presente un indice.
Qui la derivazione dalla forma Malatesta è molto evidente